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Attualità/Italia

La domanda, in fondo, è semplice: che cosa vogliamo farne dell’Ilva?



Le responsabilità di Conte (e Calenda) nella crisi dell’acciaieria di Taranto, i passi necessari per salvarla, le persone che potrebbero provarci. Rassegna ragionata dal web.

Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «“Il governo Meloni non ha alcuna responsabilità sulla crisi di Ilva. La crisi di Ilva nasce quando è stato fatto saltare un accordo blindato, siglato a seguito di una gara europea, prima confermato e poi disfatto da Conte e compagni per compiacere la Lezzi dopo il pessimo risultato delle europee”. È il pensiero, condensato su X, di Carlo Calenda, segretario di Azione ed ex ministro dello Sviluppo economico, sulla crisi di Acciaierie d’Italia, l’azienda siderurgica precedentemente nota come Ilva. I soci di Acciaierie d’Italia – il gruppo indiano-lussemburghese ArcelorMittal, che ne possiede il 68 per cento, e il ministero dell’Economia attraverso Invitalia, con il 32 per cento – non hanno trovato un accordo per l’aumento del capitale e il risanamento dei debiti: la società ha bisogno di liquidità per riattivare la produzione e le sue passività ammontano a circa 1,5 miliardi di euro».

Calenda fa bene a ricordare come la causa dei guai più gravi dell’ex Ilva sia responsabilità di una delle tante sciatterie del governo Conte. Anche se l’accordo che il nostro Carletto fece con ArcelorMittal (forse allora era troppo montezemolianamente legato con il “partito francese d’Italia” con cui poi ha rotto attaccando Stellantis) non si è rivelato particolarmente adatto per l’economia italiana.

Su First online Ugo Calzoni scrive: «Cerchi di coinvolgere il sindacato in una azione di responsabilità collettiva nella difesa (oggi) del lavoro e nella prospettiva (a breve) di un consolidato rilancio. Chiami il sistema finanziario e bancario italiano ad una operazione di responsabile aiuto nel rientro dei prestiti scaduti e nella formazione di linee di credito competitivo per ritornare con forza sui mercati internazionali. Responsabilizzi nuove professionalità nei gangli vitali del ciclo integrale e nella filiera dell’Ilva valorizzando le figure più autorevoli e più credibili maturate nella vita di fabbrica e nell’esperienza del lavoro. Metta al vertice uomini e donne di solida personalità. Professionisti nel lavoro, in grado di mettersi in discussione tutti i giorni. Lasci perdere i lunghi curricula di quanti hanno calpestato soprattutto i corridoi dei potenti di turno ma non quelli dei reparti aziendali. L’opera di rilancio dell’Ilva è difficile ma non impossibile».

Indimenticabile eminenza grigia a fianco di Luigi Lucchini negli anni Ottanta, Calzoni lancia un disperato appello per la salvezza dell’Ilva che andrebbe ascoltato.

Sul Sussidiario Giulio Sapelli dice: «È vero che ci sono i fondi prima previsti nel Pnrr e ora spostati sul Fondo per lo sviluppo e coesione per lo stabilimento di Taranto, ma occorre che ci sia un soggetto privato che si assuma l’impegno, come fecero i Riva, di investire per una siderurgia a bassa intensità carbonica. In Italia non mancano imprese che potrebbero risolvere una volta per tutte la questione ambientale, basta pensare ad Arvedi e Marcegaglia. Nel nostro paese abbiamo anche importanti imprenditori come Antonio Gozzi, non per niente presidente di Federacciai. Quel che conta, più che i fondi, è la volontà di produrre a Taranto».

L’indicazione di Sapelli è preziosa: Arvedi può essere importante per rilanciare l’ex Ilva di Taranto e altrettanto utile sarebbe bloccare la Marcegaglia per impedirle di ostacolare nuovamente il siderurgico cremonese.

Su Strisciarossa Riccardo Gianola scrive: «Per domani è atteso un incontro tra governo e sindacati per valutare la situazione ed evitare nuovi drammi sociali a Taranto, dopo tutti quelli già vissuti. I sindacati hanno chiesto che l’ex Ilva ritorni sotto il controllo pubblico. La domanda che il governo, le imprese, le istituzioni devono porsi è se, davanti a questo ennesimo blocco, un paese industriale come il nostro possa tranquillamente fare a meno del grande polo siderurgico di Taranto, che resta uno dei maggiori in Europa, e magari sostituirlo con la coltivazione delle cozze. Cosa vuole fare l’Italia, seconda industria manifatturiera del Vecchio Continente: chiudere l’acciaieria, tutti a casa e comprare acciaio dall’India, dalla Cina, dalla Corea del Sud, grandissimi inquinatori del mondo? Bisognerebbe ricordare che, pur tra mille battaglie e contrasti, l’Italia ha già destinato un piano di investimenti per la decarbonizzazione di oltre 5 miliardi di euro in dieci anni di cui 1,3 miliardi già realizzati nello stabilimento di Taranto. Qual è la strada giusta oggi? Si può ancora pensare, o illudersi, che sia possibile mantenere in vita un’industria indispensabile per il futuro del paese garantendo sicurezza, salute e lavoro? Si tratta di una grande sfida, come quella di sessant’anni fa quando vennero accesi gli altoforni in riva al mare».

Pregevole sforzo di un bravo giornalista ex Unità di svegliare la sinistra sul caso ex Ilva.


(Fonte: Tempi.it)


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